La sua è stata una resistenza molto passiva in linea con la scuola di pensiero di Ghandi che in India ha trionfato con la strategia della non violenza.
Ma Ghandi non è stato relegato ai domiciliari, partecipando attivamente a diffondere il suo credo raccogliendo proseliti e consensi fino ad assurgere al potere, fondando nientemeno che una dinastia.
Anche Aung San Suu Kyi fa parte di una dinastia essendo figlia-di, perché il vero capo carismatico era il padre del quale la moglie aveva preso l’eredità ideologica, per trasmetterla alla figlia che ha portato avanti devotamente a costo di sacrificare la famiglia, separandosi dal marito e figli pur di restare in Patria a fare resistenza “ai domiciliari” in favore del Popolo, dopo essere stata arrestata a seguito di un colpo di Stato militare.
Purtroppo tale resistenza passiva non è servita al Popolo che per vari anni fino a tutt’oggi deve subire la dittatura mentre ad Aung San Sun Kyi hanno dato il premio Nobel per la pace.
Senza voler togliere nulla a questa eroina ci sorge spontanea una domanda: “Scusi ma quale Pace?” No, perché nel suo Paese non se ne parla né tanto meno in famiglia vissuta fra separazioni e drammi.
La Pace dunque va intesa come teoria ad avvalorar la sua strategia passiva che in pratica ha ottenuto un interesse Nobel e mediatico ma non si capisce molto il suo valore intrinseco.
Infatti Luc Besson, dopo il flop di Adele e i Misteri del Faraone, ha firmato il film The Lady che narra la vita politica di di Aung San Suu Kyi accingendosi a completare l’opera di magnificar la donna di grande nobiltà di intenti.
Ma se Adèle quale rappresentante di un femminismo pioneristico è animata da spirito salvifico per la sorella Aghata che aveva ferito durante una partita di tennis, a rimarcare che le azioni più spregiudicate trasgressive e coraggiose delle donne non sono mai basate su delle utopie ma reali necessità dei componenti la sua famiglia come parte integrante di tutta l’umanità, con The Lady i familiari sono stati sacrificati.
Il film è incentrato tutto sulla sofferenza della Nobel birmana per questi affetti a lei negati che comunque non ha voluto ricomporre, pur avendone avuto l’occasione, preferendo l’isolamento ai domiciliari mantenendo quello dell’informazione mediatica trasversale e tecnologica.
Insomma una scelta di potere pagata a caro prezzo. Della Birmania e della sua famiglia. Ne valeva la pena?
Perché diciamocela tutta, nella vita quel che conta è il risultato di fronte al quale qualche volta diventa necessario arrendersi perché per Aung San Suu Kyi come risultato è quello di essere diventata un’icona della lotta passiva, come una sorta di bellissimo fiore di orchidea che stride un filo con la resistenza passiva essendo il fiore di intrighi e passioni.
Lo stesso che si è messa in testa quando ha incontrato Hillary la quale era invece elegantemente in stile minimal a capello raccolto a tutto gel.
Particolari che fanno la differenza e che comunque la dicono lunga sulla missione di Hillary (figura chiave nella politica USA prima di Clinton e poi di Obama, e abile stratega nel cercare i voti delle donne): più che un piacere è stato un dovere. Nobel oblige!
Nessun commento:
Posta un commento