mercoledì 15 gennaio 2020

TURANDOT IMPERATRICE MECCANICA




L’opera ha aperto la stagione lirica al Teatro Regio in un allestimento minimal secondo le direttive del regista Giuseppe Frigeni (regia coreografia scene e luci) che ha spiegato la scelta per rappresentarla in semplicità. Molto chic?
Purtroppo l’opera nei suoi antichi fasti ce la possiam scordare  anche se l'occhio vuole la sua parte senza dover assistere a una messa in scena di una scala sotto a  un plateatico un quadro in alto e qualche pannello con ideogrammi.




Allora meglio la cineseria di Alfonso Signorini stroncata impietosamente che invece a questo punto grida vendetta tirando dietro i suoi vasi ming, le lanterne, i separé le nacchere i gong ventagli pagode le extention e quant’altro farebbe china market.
Meglio ancora se si andasse ad optare per l’innovazione tout-court come il caleidoscopico allestimento di Stefano Poda in una versione horror trasgressiva fra corpi nudi danzanti e lustrini a sfera in mano come teste tagliate che brillavano in una coralità di gruppi minacciosi ad evocare il clima di terrore nel quale era piombata la Cina con gli enigmi di Turandot per vendicare gli stupri subiti dai Tartari.

Meno spesa doppia resa perché l’attenzione è centrata verso canto e musica sempre bella e piacevole. Non nei costumi comunque perché su quelli un velo pietoso: il vecchio Timur (Giacomo Prestia) sembrava Mosè quando esce da deserto, non dei Tartari ma del Sinai mentre 
Liù (Vittoria Yeo) col velo sembrava Sephora la pastorella sua compagna. 
Il gran ciambellano e i mandarini ping pong pang si dimenavano sulla scena con le movenze del risveglio muscolare di gruppo che i cinesi inscenano oggi nei parchi in una via di mezzo tra Karate e Kung-fu mentre Turandot  (RebeKa Lokar) in bianco e di larga stazza a veste tutta gonfia che entrava ed usciva dalla scena con passettini felpati e roteanti simili a quelli di un robot,  più che una erotica dominatrice sembrava un fantasma, una sorta di Belfagor in formula in mano tratta dal libro dei morti, specie quando si posizionava in controluce a spalla contro una porta con il capo nascosto in una braccio come se giocasse a nascondino: “Un due tre, tana: chi è fuori è fuori chi è  dentro”




Dentro, fra i personaggi che “animavano” si fa per dire la scena, da una sorta di scantinato spuntavano le teste del coro tutte in fila come degli emoj ad avvalorare le emozioni delle romanze dell’opera di Puccini dove il bel canto giustamente fa da padrone sugli spettatori galvanizzati.
 Su questo non ci piove perché l’Opera è di grande impatto emozionale specie nel finale del primo atto quando la musica a suon battente in ensemble col coro fa vibrar le casse toraciche per poi sfociare in una esaltante gioia quando Calaf (Carlo Ventre) intona il Nessun Dorma mettendo tutti all’erta per non perdere una nota fino all’acuto di All’Alba Vincerò vincendo in pieno con la sua performance.
L’opera è bellissima anche se non è di Verdi ma Puccini piace in quel difficile percorso intrapreso in Oriente fra Cina (Turandot) e Giappone (Madame Butterfly) facendo conoscere all’Italia ( quella della Bella Epoque che aveva assimilato il gusto per l’arredo cinese e giapponese in una sorta di fusioni di stili ad effetto kitsch così come oggi nella ristorazione dove sushi e gamberetti fritti sono serviti senza distinzione) queste culture in tutte le sue sfaccettature drammatiche pari a quelle occidentali.

Tra il tutto esaurito in sala gli applausi sono stati scroscianti e generosi per il gradimento dell’opera e le performance dei cantanti così come quelle del coro del Teatro Regio di Parma maestro Martino Faggiani e dell’orchestra Filarmonica Italiana Bruno Bartoletti senza che sia stato speso un commento sull’allestimento come se il pubblico si sia ormai assuefatto a queste nuove scenografie minimal tra una porta e l’altra, un gradino un pannello e un gioco di luce ad effetto “Sic”. 
Sìc et simpliciter! non sottovalutando il rischio di scadere nel sempliciotto perché il passo è breve


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